blog di Carlo Cuppini

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venerdì 5 ottobre 2012

piccola intervista sulla poesia

piccola intervista sulla poesia a cura di Sara Monetta
http://gocciamondo.blogspot.it/2012/10/il-mito-della-caverna.html

Conoscete il mito della caverna di Platone? In soldoni racconta di alcuni uomini prigionieri che si trovavano fin dalla nascita in una caverna legati ad un ceppo col viso rivolto alla parete e vedevano riflesse delle ombre. Fuori dalla caverna passavano degli uomini con dei vasi in testa e loro erano convinti che si trattasse di mostri. Che cosa accadrebbe se uno di loro fosse liberato dalle sue catene?

Ho riportato con qualche ritocco questo bellissimo mito per dare una vaga idea dell'immagine che mi si è delineata in mente mentre intervistavo un giovane uomo, Carlo Cuppini, che in cinque minuti di chiacchierata mi pare mi abbia insegnato molto più di quanto non abbiano fatto in cinquanta ore di lezione i professori all'università. Ho sempre pensato ciò che Carlo ha affermato, ma sentirselo dire con tale schiettezza è stata come una doccia fresca in una giornata d'estate. Carlo Cuppini è un poeta, autore di una raccolta intitolata: Militanza del fiore.

Come si evince anche dalla tua opera, a te piace sperimentare e rompere gli schemi. Qual è stata la prima catena che hai spezzato nella tua vita?

Forse quella del conformismo. Ricordo bene che fin da molto piccolo non potevo soffrivo tutto ciò che sembrava “andare per la maggiore”. Fin dall’asilo. Da adolescente diventai un ribelle – ovviamente, di quelli che non vanno “di moda”. Questo significava passare a volte per un originale, più spesso per un disadattato. Poi da adulto uno smette di farsi condizionare da quel che fanno o non fanno gli altri; oggi mi importa sopra a tutto della libertà: del pensare e del sentire, prima ancora che del fare. La libertà che è un fatto esclusivamente individuale, che però si esercita solo in mezzo alla collettività.

Hai scritto un libro di poesie che s’intitola Militanza del fiore. Perché la poesia e la poesia civile?

Credo che la poesia sia uno strumento di libertà, appunto, una sua sensibile concrezione, ancor prima che un modo di esprimersi. Poiesis in greco vuol dire “fare”. Così andrebbe intesa anche oggi: fare, fare se stessi, fare l’istante presente, fare una cosa concreta, attraverso un preciso atto di creazione. Un piccolo atto di creazione, va bene, non unagenesi! Ma la creazione, anche nel gesto più piccolo, implica la responsabilità della libertà – anche libertà dalle proprie idee, dai propri pensieri coscienti. E questo è un fatto civile. La poesia buona è sempre civile. Anche se parla di passerotti. Nelle mie poesie compaiono spesso temi, parole legate all’attualità. Ma non è questo che la rende civile. È civile nella gestualità che mette in campo, una gestualità che agita il corpo della mente e lo spinge oltre i confini del controllo politico e sociale.

Tra le poesie pubblicate nel tuo libro, qual è quella che senti più vicina a te?

Temo di non sapere rispondere. Però ce n’è una che leggo sempre alle presentazioni, si chiama “Cose che accadono eccetera” ed è una specie di frullatore di parole, notizie, pubblicità, cose sentite, cose viste, telegiornali, facce, voci, falsità... tutto il circo mediatico, insomma, che diventa un disperato salto ad ostacoli per trovare un barlume di senso e di umanità. Una disperata corsa contro il tempo, tutta d’un fiato. Contro il nostro tempo.

Credi che nel mondo moderno, così caotico e sempre di corsa, ci sia ancora spazio per la poesia?

Il nostro mondo è la dittatura del linguaggio. Il 90% delle cose che conosciamo, sperimentiamo, discutiamo, condividiamo, interiorizziamo, passano attraverso i media, i dispositivi, il digitale, internet. In altre parole: sono filtrate dai linguaggi e non sono altro che linguaggio. Eppure il nostro è anche il mondo dell’analfabetismo: siamo invogliati e incitati a disimparare ogni tecnica che consenta di decodificare i linguaggi del mondo: ci deve essere sufficiente sapere usare gli oggetti, gli accessori. Soprattutto in Italia: i linguaggi artistici sembrano qualcosa di alieno, non esiste una cultura del contemporaneo, una familiarità con la ricerca, una passione per la sperimentazione. Ascoltare la musica di Bach o di Mozart, confrontandosi con quel tipo di linguaggio non scontato, è già un atto di resistenza. Scrivere una poesia, mettendo in discussione l’inerzia e il conservatorismo opaco delle parole, è una rivoluzione di cui in Italia oggi c’è bisogno.

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