blog di Carlo Cuppini

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venerdì 6 novembre 2009

33 - poi, un giorno

Storia di un uomo che si sveglia una mattina e non se la sente di aprire gli occhi. Aspetta un po' disteso, ma proprio non riesce a trovare l'energia, e la motivazione, per fare quel gesto in genere naturale e automatico. L'uomo si è svegliato come travolto da un carico insostenibile di stanchezza. Stanchezza per cosa, si chiede. Non trova risposte. Qualcosa l'ha prosciugato, nottetempo. Qualcosa che forse lavorava da anni, per prosciugarlo. Qualcosa che forse ha a che fare con l'aggressione di un mondo che chiede e pretende, ed esige. Con l'invasione di un mondo esterno che riempie, invoglia, costringe. Con le immagini. Con i messaggi veicolati attraverso le immagini. Con tutta la violenza che è sotterraneamente veicolata, in quei messaggi, in quelle immagini. Molto più potente della capacità dell'uomo di resistere, di opporsi alla persuasione, al plagio.
Tutto questo forse ha condotto l'uomo oltre questa fatidica soglia di stanchezza.
Ne è vagamente cosciente, spende del tempo a vagheggiare queste e altre supposizioni. Ma la stanchezza lo demotiva anche a darsi da fare nel cercare una risposta. Non può che non aprire gli occhi. Questo è tutto. Non se ne dà pena.
Ora gli viene un'idea. Come per un istinto, con molta naturalezza. Un'illuminazione nel buio, diciamo pure. Si alza, non apre gli occhi. Si sente già meglio. Il gesto di alzarsi, unito al non gesto di non aprire gli occhi, gli fa scendere tutta la stanchezza lungo la schiena. Sente che qualcosa ha appena iniziato a scendere, e la discesa sarà lunga lunga lunga...
E' un'enorme rilassamento quello che comincia a farsi strada in lui, mentre urta tutti i mobili e gli spigoli della casa, mentre batte le testa nella mensola del bagno per lavarsi i denti, mentre si brucia il polsino della camicia per cercare di fare il caffè.
E' lo scioglimento di una tensione epocale, come quando in montagna, dopo una giornata di cammino in salita e in discesa, una volta tornato alla basa uno si toglie gli scarponi e poggia i piedi su una sedia. Un rilassamento così intenso e rapido, teso a compensare tutto un prolungato e forzato trattenere, che sembra confinare con il formicolio e perfino il dolore.
Questo è ciò che prova l'uomo che si è alzato e non se l'è sentita di aprire gli occhi.
Poi esce di casa, fa le cose normali della sua vita, attraversa la città per andare a lavorare, tanto per cominciare. Cerca di farlo. E non è semplice. Tutto è infernale, rumoroso, eccessivo, distratto, violento, inconsapevole, spaventoso, acuminato. Ma lui è in balia di un sorriso che si dilata dentro di lui, come se si fosse schiantata la membrana di un organo del corpo segreto, che contiene un liquido denso e caldo, vitale. E questo liquido si va espandendo, rassicurandolo, disperdendosi in ogni anfratto del corpo e della mente, e anche se lui sa che la dispersione di questo liquido porterà alla sua morte, questa consapevolezza non si oppone al suo senso di conforto.
Non vede niente. E' felice. Lentamente torna a sentirsi se stesso, come non sentiva da tanto tempo. Cerca comunque di comportarsi con compostezza, con naturalità. Si reca dai parenti, dalla figlia, dai fratelli, dagli amici, sempre barcollando, ferendosi, cadendo a terra. Minimizza, davanti alle loro domande. Gli chiedono se è malato, se è rimasto ferito, se si è sottoposto a una cura o a un'operazione. Lui fa il vago, è evasivo, minimizza. Poi gli chiedono se è impazzito. Se sta conducendo uno scherzo di cattivo gusto. Se è impazzito. Lui si scherma, minimizza. Sorride sempre.
Sta sempre pi curvo verso la terra, procedendo, tornando a casa, prendendo soldi al bancomat, mangiando al tavolo con tutti gli altri al pranzo di Natale. Si sente attratto dalla terra, comincia a sentire come un canto da qualche profondità che non può vedere ma che, d'altra parte, non potrebbe vedere neanche se si decidesse a riaprire gli occhi. Sente un canto provenire come da strati di spirali verticali, che si intrecciano fino a formare la solidità dal pavimento, ma nascono molto più in giù, più lontano. Lo vuole ascoltare questo canto, questa voce che lo fa sorridere, e a volte proprio ridere ad alta voce, perché è come un massaggio, così delicato che sconfina facilmente nel solletico. Ride, e sorride, e cammina, e si sveglia, e non apre gli occhi. Di notte, nel sonno, nel sogno, a volte apre gli occhi, e vede cose che non ha mai visto a occhi aperti. Ma al risveglio non gli viene mai voglia di riaprirli, per verificare se il mondo, di fuori, è sempre lo stesso; o se la vista è cambiata; o se le cose che vede nel sogno esistono veramente e ora potrebbe vederle con i suoi occhi. Non gli viene questa voglia. Non ancora. L'ascolto del canto lo assorbe quasi totalmente. Cerca di continuare a condurre una vita normale, non vuole fare l'eccentrico, estraniarsi dalla società, fare l'eremita: niente di tutto questo lo interessa. Però è sempre più preso da questo ascolto, incessante, e la sua postura è sempre più curva verso terra, procede ingobbito, quasi accartocciato, è anche molto dimagrito ultimamente, perciò sembra un guscio, una foglia rinsecchita che sta per andare in pezzi. Non riesce neanche più a capire se gli altri lo considerino un pazzo o cosa: non perché gl altri gli nascondano i loro veri pensieri, crede, ma perché non riesce a porre l'attenzione su questo aspetto abbastanza a lungo per farsene un'idea. Il canto lo distrae subito. Lui si incurva ancora di più, ruota un po' la testa per porgere orecchio al terreno, alle onde meravigliose che lo raggiungono.
Poi, un giorno, in mezzo alla strada, si drizza, eretto, apre gli occhi.
Poi, un giorno, la morte per strada lo coglie.
Poi, un giorno, quest'uomo non apre gli occhi mai più.
Poi, un giorno, tutta quella stanchezza finisce di scendere lungo la sua schiena.
Poi, un giorno, quest'uomo è san Francesco.
Poi, un giorno, quest'uomo è su una collina desolata a conversare con Tarkowski, che ha incendiato la sua casa per salvare l'anima e l'umanità.

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