blog di Carlo Cuppini

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mercoledì 14 ottobre 2009

10 - vedere

Prima la questione era vissuta più alla giornata, in modo intuitivo e a seconda del contesto. Con margini di flessibilità. Poi ci fu Nicea, 787 d.C., e sull’argomento venne presa una posizione definitiva. I potenti del mondo cristiano, riuniti per la seconda volta in 500 anni nella cittadina dell'odierna Turchia, posero a essi stessi la domanda nei suoi termini esatti: "ma le cose si possono rappresentare? Dio e il sacro possono essere raffigurati? e l’uomo? insomma, le immagini vanno bene o no?". E si diedero una risposta: SI.
Risposta tutt'altro che scontata, si badi: gli altri due monoteismi -il vecchio ebraismo e il neonato ma già forte islam- non si sognavano di creare rappresentazioni di Dio o degli uomini; in generale erano contrari alla raffigurazione di qualunque cosa, in quanto tale. Così come la maggior parte delle comunità cristiane, che non praticavano altro tipo di creazioni visiva che non fosse di tipo simbolico e concettuale.

A Nicea la posta in gioco era alta. Si trattava di definire una volta per tutte il rapporto della nostra civiltà con gli ambiti del visivo, del visibile, dell'invisibile. Tutto questo non significa altro che "rapporto con la realtà". E chissà se i protagonisti di quell’incontro ne erano pienamente coscienti. Immagino che almeno i più illuminati avessero chiaro che ognuna delle due opzioni implicava un guadagno e una rinuncia. E forse, in quel preciso istante, la nostra civiltà al bivio si è autorispecchiata nel proprio essere in bilico tra due opzioni. Mai più ci sarebbe stato un momento più critico, a livello delle nostre strutture profonde dell'esperienza della realtà. Fiction, realismo, simbolismo, naturalismo, documentazione... che senso avrebbero questi termini che rappresentano altrettanti dilemmi, se avesse prevalso il NO? E che cosa intenderemmo ora con le parole: fantasia, immaginazione, immaginario, narrazione, figura, forma, visione? Ma soprattutto: se in quel 797 i potenti di turno, i saggi del tempo più che i politici, come mi piace immaginare, hanno scelto lucidamente per il SI, sapendo forse esattamente su che cosa stavano sbattendo la porta, noi, ora, siamo in grado di intuire che cosa in quel momento abbiamo perso per sempre? Siamo in grado anche solo di porci realmente questa domanda e lasciarla risuonare in uno spazio vuoto?

Tutto è visibile: è così che abbiamo perso per sempre un rapporto normale con l’invisibile. L’invisibile, semplicemente, è diventato un termine per significare ciò che non esiste e non ci riguarda. Il che è corretto: come noi non possiamo guardarlo, luo non riguarda noi. Ma questo è stato possibile attraverso un'estromissione e una mutilazione.
Perciò, per una specie di compensazione, ci siamo specializzati nel vedere: abbiamo inventato diversi termini per dimostrarci che il visivo è una gamma soddisfacentemente ampia per vivere dentro i suoi conifini: guardare, osservare, scrutare, visionare, occhieggiare, spiare, intravedere. Infine, e solo nel caso migliore, vedere. Come gli esquimesi che hanno più di 20 modi per dire “bianco”. Si devono pur fare una ragione, di quella monotonia.

C’è dell'altro: dopo Nicea, tutto è diventato possibile. Ciò che io posso vedere, è proprio davanti a me, offerto a me, disponibile, già quasi a portata di mano. Nell'immediato o come promessa futura. Così funziona la pubblicità. Il visibile deve essere fruibile. Se può essere visto, può essere comperato. Vedere è (pensare di) potere. Signori, guardate. E vi sarà dato. E così abbiamo fatto piazza pulita dell'impossibile, come qualcosa di reale, che può manifestarsi, che può esistere, che ci può, anche lui, riguardare, o meglio, coinvolgere. Il nostro destino potrebbe avere a che fare anche con l'impossibile.

E ancora un'altra cosa: sul visibile si può teorizzare, ed entrambe queste cose aprono la strada al teatro, allo spettacolo, alla contemplazione (dell'artefatto). Non a caso "vedere", "teorizzare" e "teatro", in greco, sono parole quali uguali, provengono dalla stessa radice e dallo stesso nucleo di senso. La scelta di Nicea viene da lì, quando si è scelto di degiudaicizzare definitivamente il cristianesimo, sulla scia del romanissimo "apostolo" Paolo che mai conobbe Cristo. E cominciare a farne un teatro.

Così abbiamo guadagnato tre cose: tutto è visibile; tutto è possibile; tutto è spettacolo.
E abbiamo perso tre cose: un rapporto diretto e normale con l’invisibile, un rapporto diretto e normale con l’impossibile; un rapporto diretto e normale con la realtà.
Avrei vouto esserci, quel giorno a Nicea. Avrei voluto ascoltare i loro argomenti. Gli avrei raccontato in anteprima di Debord e di Baudrillard, a quei saggi. Avrei voluto sapere il loro parere sulla nostra società smaterializzata che viene proprio da lì.

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