blog di Carlo Cuppini

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mercoledì 1 maggio 2024

"Logout: ci vuole coraggio per vivere a Sbafo" recensione di Paolo Gualandris

Recensione e intervista di "Logout" di Paolo Gualandris – che ringrazio per la lettura approfondita del romanzo e per la piacevole conversazione – per "La Provincia di Cremona"

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Quello di Sbafo, capitale della Malsazia, è un mondo che sta stretto a Luca, 12enne obbediente fuori, un po’ insofferente dentro. E come potrebbe essere diversamente? Uscire di casa è vietato dal governo se non per andare a riverire il gran capo Giaffo Zucabezzo, i pochi che lo fanno considerati terroristi e perseguitati; le lezioni di scuola sono online e gli amici puoi abbracciarli fisicamente solo una volta all’anno; le gite sono virtuali, si entra in una macchina che resta chiusa in garage e un video proietta la strada sui vetri; dalle finestre di casa solo panorami filmati; si vive nella propria stanza e ci si incontra con mamma e papà solo per andare a tavola, dove peraltro si mangia cibo sintetico; la vita quotidiana è guidata da Linda, tata virtuale tuttofare e protettiva, ma soprattutto occhio elettronico del potere costituito; ogni desiderio viene esaudito in pochi istanti da consegne robotizzate della ditta TuttoPer, ovviamente di proprietà del Zucabezzo.

Luca non è un ribelle, vorrebbe solo recuperare il pallone da basket regalatogli in punto di morte da nonno Taddeo, l’unico che aveva avuto il coraggio di sfidare il sistema portando il nipote in giro per davvero con la sua vecchia auto e giocando fisicamente con lui. È lì a due passi, in giardino da tempo, ma non può recuperarlo perché uscendo sarebbe aggredito dai virus, come assicura il regime. Il babbo gli dice sempre che lo prenderanno domani, ma domani non arriva mai. Finché non accadono cose che potrebbero ribaltare la situazione. Arriva, nascosto nell’imballo di una SuperSorpresa, un messaggio in codice scritto a mano. Qualcuno lo cerca, lo sta chiamando, ma per rispondere all’appello Luca dovrà scollegarsi da tutto e uscire nel mondo. Quello vero. Stanti queste premesse, non poteva che intitolarsi ‘Logout’ il romanzo di Carlo Cuppini che narra di una società distopica forse meno lontana da noi di quanto si pensi. Un romanzo di avventura capace di appassionare il lettore, catturarlo e farlo riflettere.

(...)

La Malsazia è uno stato ricco, nato dalla divisione della penisola di Birbania: di qui tecnologia e benessere, di là la Poverania, che come dice il nome stesso è la terra dei paria. 

«Avevo bisogno di inventare un luogo dell’immaginazione dove potessero accadere cose singolari, un Paese con leggi e consuetudini bizzarre. Una terra per certi versi nemmeno troppo dissimile da una penisola che conosciamo bene, perché ci abitiamo. Ma non volevo fare una caricatura dell’Italia, volevo creare un concentrato parossistico di alcune caratteristiche del mondo in cui viviamo: quello post colonialista, della globalizzazione, dove c’è un primo mondo che sta bene, per meriti propri, certamente, ma anche grazie al 'contributo' che estorce agli altri, attraverso rapacità, deprivazione e ricatti economici».

(...)



Articolo integrale: 

https://www.laprovinciacr.it/video/cultura-e-spettacoli/443147/logout-ci-vuole-coraggio-per-vivere-a-sbafo.html


Primo Maggio

Come per tutte le feste comandate, ad alto tasso di retorica celebrativa e di autocompiacimento, anche per il Primo Maggio non mi è mai molto chiaro che cosa si festeggi. Il trionfo della cultura del lavoro? L'affermazione universale dei diritti dei lavoratori?
Non lo so. Mi pare che tutto questo sia rimasto molto incompiuto, e che a un certo punto – complici le forze politiche "del lavoro" (centrosinistra e sindacati) – abbia preso ad andare esattamente al contrario, dalla formalizzazione del lavoro precario alla fine degli anni Novanta in poi. Per non parlare di quello che vediamo se alziamo lo sguardo per abbracciare con un'occhiata la dimensione del mondo globalizzato... Dove quello che rimane nel nostro potere di acquisto - dopo la rapina definitiva da parte delle classi alte - si nutre di carne umana (delocalizzata, però).
In ogni caso, in questa giornata non posso evitare di pensare che oggi chi si intesta il diritto di parlare con orgoglio di tutela del lavoro, il 14 gennaio 2022 non si è sentito chiamare in causa da questa nota di Amnesty International (che ha avuto ben poca visibilità sui media, in effetti).

"Per quanto riguarda il Green Pass rafforzato recentemente approvato, deve trattarsi di un dispositivo limitato nel tempo e il governo deve continuare a garantire che l’intera popolazione possa godere dei suoi diritti fondamentali, come il diritto all’istruzione, al lavoro e alle cure, con particolare attenzione ai pazienti non-Covid che hanno bisogno di interventi urgenti e non devono essere penalizzati.
In ogni caso, Amnesty International Italia CHIEDE che siano previste misure alternative – come l’uso di dispositivi di protezione e di test Covid-19 – per PERMETTERE ANCHE ALLA POPOLAZIONE NON VACCINATA DI CONTINUARE A SVOLGERE IL PROPRIO LAVORO E DI UTILIZZARE I MEZZI DI TRASPORTO,SENZA DISCRIMINAZIONI."

Non mi risulta che chi oggi guida le celebrazioni del Primo Maggio - dai cantanti sul palco romano ai leader del sindacato al Presidente della Repubblica - abbia commentato questa richiesta, anche solo per argomentare il rifiuto di accettarla. O che abbia preso posizione quando, rimossa la misura del green pass, il Ministro dell'Istruzione Bianchi - appartenente al centrosinistra - affermava che non era opportuno reintegrare nelle classi gli insegnanti non vaccinati perché sarebbe stato "diseducativo".
Qualcuno recentemente ha avuto il coraggio di tornare su questi temi con approccio critico: Loredana Lipperini, Susanna Tamaro, Enrico Macioci. Finché non sentiremo tutti la necessità di ragionare su quella stagione, con il coraggio e l'onestà dell'autocritica, parlare di diritti nelle feste comandate, per me è come essere buoni a Natale.

martedì 30 aprile 2024

"Logout": La musica, il mare

In Logout la musica è importante; Caya, l’amica di Luca, è una giovanissima rocker; una canzone ha il potere di rimettere Luca sulla strada giusta quando rischia di perdersi; un canto scioglie un groppo alla gola e libera le lacrime trattenute. E poi c’è anche la musica orrenda, la “musica del potere”, le sigle, i jingle, il riempitivo sonoro che satura lo spazio e la mente, perché non capiti che pensieri non omologati si formino.

Quando ho raccontato la storia di Logout alla mia amica romagnola Laura L., a lei è venuta in mente una canzone: A casa di Luca di Silvia Salemi. Ve la ricordate? Era il 1997. Io avevo 17 anni, lei - la cantante - 19. A quel tempo non c’erano i social né i servizi di messaggistica; per molti non c’erano nemmeno i cellulari, e se c’erano si usavano soltanto per telefonare; c’era internet, sì, ma ci volevano un paio di minuti per collegarsi, e comunque non si sapeva bene come usarlo; i motori di ricerca emettevano i primi vagiti; e poi c’era il “popolo di Seattle”, c’era il subcomandante Marcos, c’erano molti fermenti dal basso e “un altro mondo” era “possibile”, o sembrava esserlo. Era davvero un altro secolo, un altro millennio.

Della canzone ricordavo solo il titolo. Riascoltandola, sono rimasto fulminato. È così attuale, e allo stesso tempo così meravigliosamente inattuale, e il suo senso è così affine a quello del mio romanzo. Forse il Luca della canzone è il Luca di Logout da grande, anche se la canzone ha quasi trent’anni più del romanzo…

“Anni questi anni passati così
Aridi, sterili, vuoti
E l'era delle immagini
C'ha rubato il cuore
L'inventiva, le idee, le parole
Oh certo che provo qualcosa per te
Ma dire amore è difficile
L'epoca del
Tun tun cha pa tu pa tum
C'ha stordito il cuore
Siamo isole senza valore

Ma la sera a casa di Luca torniamo a parlare…
(…)

Sai che dovresti venirci anche tu
Anche se a casa stai comodo
Ma questa è un'era subdola
Che ti inchioda il cuore
E la vita ad un televisore
…”

Il resto della canzone ve lo lascio ascoltare.
Cercatela: troverete il mare.



sabato 27 aprile 2024

"Logout": la copertina disegnata da Alice Barberini

La copertina di Logout è stata disegnata da Alice Barberini per Marcos y Marcos.
Alice è un’illustratrice dal tratto minuzioso e composto, che riesce a portare nel più preciso realismo la dimensione incantata a vibrante della poesia e dell’immaginazione. Nei suoi albi, pubblicati da Orecchio Acerbo, ci sono i volti dei bambini, i loro sguardi, quelli degli animali, i voli degli uccelli e le loro prospettivi aeree, il mistero che ogni passante porta con sé.
Mi piace il disegno che ha fatto per “Logout”, che coglie dei dei tratti essenziali del romanzo: la prospettiva dal basso, terra-terra, del mondo fisico riconquistato; il disorientamento del ragazzino davanti all’ignoto, pari alla certezza che è proprio là che deve andare; la determinazione stampata sulla fronte liscia (che non si vede, ma si sente), che porterà a superare ogni impedimento, a partire da quella scarpa slacciata. La solitudine nell’avventura della crescita, anche; la solitudine in un mondo che a volte appare irriconoscibile, rispetto a ciò che i pianeti ci hanno una volta raccontato; e che pure possiamo tornare a riconoscere, riconoscendoci mutati in esso; mutati noi dal mondo, in un mondo mutato dalla nostra fragile, incisiva, incessante partecipazione.
Anche dei colori voglio parlare: il blu e il giallo. Non so se l’idea sia stata sua (un giorno glielo chiederò), ma appena ho visto la copertina ho pensato che quei colori univano involontariamente tre tappe essenziali del mio viaggio personale. Giallo e blu sono i colori di Urbino, mia città natale; sono i colori del Galluzzo, il quartiere di Firenze in cui vivo; sono i colori dei segnavia del Cammino di Santiago, più sacri delle ossa del santo per il pellegrino. E con Santiago ritorna la prospettiva terra-terra, quella della polvere del cammino, della scarpa slacciata, delle ginocchia sbucciate; il livello della rinuncia all’inessenziale, dal quale, alzando gli occhi, si vede un altro cielo, misteriosamente popolato, e molto più vicino.

lunedì 22 aprile 2024

"Logout": il pallone

Per Luca, il protagonista di “Logout”, l’adolescenza è anche il richiamo del mondo fisico, dell’avventura, del fuori. Questo richiamo è rappresentato da un oggetto in particolare: il pallone da basket che il nonno Taddeo gli ha regalato. Luca lo guarda dalla finestra della sua camera, ma non può prenderlo: perché uscire di casa è pericoloso, è complicato, è un affare di stato. Prima bisogna soppesare tutti i rischi e prendere ogni precauzione, e questa preparazione potrebbe comportare tempi lunghi. Tutto è rimandato a domani.
Durante la scrittura del romanzo, quel pallone è sempre stato nella mia mente. Entrato nelle prime pagine del libro come un oggetto del tutto marginale, ha finito per diventare un faro che mi ha aiutato a condurre i personaggi verso l’esito della loro rocambolesca avventura.
Il pallone reale che vedete nella foto è entrato nella mia vita una settimana dopo avere consegnato all’editore l’ultima revisione, e proviene dal mondo dell’immaginazione, grazie a una di quelle coincidenze strambe, inspiegabili e piene di significato. Passeggiando con mio figlio in un viottolo dietro casa ci siamo imbattuti in questa sfera arancione e rugosa. Era sporca, ammaccata e acciaccata, chiaramente abbandonata dal proprietario perché ritenuta irrecuperabile.
Per un attimo ho visto la realtà che sfarfallava.
Adesso il pallone è nel nostro giardino: è il pallone che nonno Taddeo ha lasciato a Luca perché si ricordasse sempre di lui e delle cose vere.



mercoledì 17 aprile 2024

"Logout", da oggi in libreria

Intelligenza artificiale ovunque, amicizie solo sui social, realtà virtuale per giocare, studiare e lavorare, acquisti on-line con consegna immediata, classifiche con premi e punizioni, sorveglianza e igienismo, comodità e sicurezza...
In Malsazia tutto appare progredito, prevedibile e funzionale. Il signor Zucabezzo, grande imprenditore e vero leader del Paese, con le sue aziende e le sue politiche ha fatto proprio un buon lavoro.
Ma sotto la superficie scintillante qualcosa si agita. E proprio grazie ai meccanismi che stanno alla base del sistema un imprevisto si manifesta nel posto giusto e al momento giusto.
Luca, un ragazzino ancora in bilico tra l'infanzia e l'adolescenza, si troverà di fronte a una scelta drammatica e impensabile. E con lui Linda: l'onnipresente intelligenza artificiale che tutto coordina e tutto controlla.
Esce oggi nelle librerie e nei bookstore on-line “Logout”,
Marcos y Marcos, 408 pagine, 14 €, copertina di Alice Barberini.

mercoledì 10 aprile 2024

“Senza titolo (No)” di Ramona Caia, per Daniela De Lorenzo



In un mondo avviato con slancio, e perfino con entusiasmo progressista, verso l'autodistruzione, il Dada pronunciò il suo No. Se una discussione intorno all'orrore assoluto poteva esistere, non si trattava di entrare nella discussione con questo o quell'argomento, ma di rifiutare in modo totale, incondizionato e irreversibile la possibilità stessa della discussione, l'impianto logico su cui si configuravano le menti umane. Era un No insolente, ironico ed euforico, nella misura in cui si specchiava in un parimenti clamoroso Sì: quello creazionale dell'arte.

Sessant'anni prima era stata pronunciata un’altra eclatante sequela di No, in questo caso solitaria, e sottovoce: quella di Bartleby, lo scrivano protagonista dell’omonimo racconto di Melville. I suoi garbati e insistiti “I would prefer not to”, ripetuti in risposta a ogni sorta di domanda e richiesta, portano sull’orlo del più profondo sbalordimento il suo datore di lavoro, che finisce per formulare richieste appositamente perché lui debba rispondere “sì”. Ma Bartleby continua a preferire di no, fino all’ultimo, fino alle estreme conseguenze. Senza motivo, senza spiegazione: la sua preferenza non è condizionata dalle circostanze o dalle intenzioni altrui. Il No di Bartleby non è un no a questa o a quella cosa; ed è questo fatto che sconvolge il suo datore di lavoro, e i lettori del racconto, ancora oggi.

Dopo, anche il No gridato ed esibizionista del punk ha preteso di essere un No assoluto e indiscutibile. 

Prima, il No di Francesco d’Assisi alla cultura e ai libri è stato un altro rifiuto assoluto, incontrovertibile, del livello convenzionale della discussione; essendo essa stessa – la discussione – plasmata sulle logiche di potere – fosse anche il potere delle argomentazioni: il linguaggio è ragione, ma è altresì potere – e capace di umiliare, prevaricare, giustificare gli orrori della Storia, uccidere. Francesco, semplicemente, rovescia il tavolo, e scommette su un altro possibile livello di esistenza della specie umana, raggiungibile non attraverso la dialettica, ma camminando a lungo, in silenzio, scalzi.

Tornando al nostro tempo, nei borborigmi incomprensibili degli "Idioti” di Lars Von Trier sembra di sentire echi della disperata speranza di Francesco.


Il No di Ramona Caia non è né gridato né sussurrato, né insolente né garbato. È il gesto quieto di un corpo senza connotati e senza condizioni – ridotto a un tronco senza arti e senza capo, in effetti – dal quale fuoriesce una propaggine articolare al solo scopo di dimostrare che il corpo stesso è un messaggio. E che il messaggio è un No. L’azione si ripete in un loop circolare la cui unica variazione sta nell’alternanza del colore (un rosso sullo sfondo che richiama molti drammi, privati e collettivi, e brutalmente scontorna il corpo con il suo aspetto diafano) e del bianco e nero, che – per contro – sposta il senso della visione fuori da ogni possibile attualizzazione. Il No di Ramona Caia non sembra rispondere a una domanda, non sembra riferito a una specifica circostanza. Il silenzio in cui l’azione avviene e si ripete all’infinito rende la visione ancora più conturbante, calando opera e spettatore, insieme, in un’apnea subacquea. Si potrebbe ipotizzare che le circostanze funeste che scandiscono da tempo la nostra quotidianità abbiano a che fare con questa significazione. Tuttavia la forza del gesto – ricomposto in un quadro costituito da un tablet appeso alla parete – lascia prevalere l'enigma, l'inafferrabilità: la richiesta di fermarsi, appunto, sul limite della logica e della discussione, qualora non si sia disposti a rinunciare ai limiti della specie. O almeno a tentare questo salto, pensando ai tentativi di De Dominicis di volare, o formare quadrati invece di cerchi intorno a un sasso lanciato nell'acqua. 

In questa breve rassegna dei No incontrovertibili, ispirata dall'opera di Ramona Caia, va incluso ancora un riferimento, almeno: il Montale di “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”: “Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”


L’opera “senza titolo (No)” di Ramona Caia è esposta al Museo d’Inverno di Siena all’interno della mostra dedicata a Daniela De Lorenzo, intitolata “Controluce”. 

Il Museo d’Inverno, diretto da Francesco Carone ed Eugenia Vanni e situato dentro la monumentale architettura della Fonte Nuova, propone da alcuni anni dei focus interessanti su artisti contemporanei, invitandoli a prodursi non attraverso l’esposizione di proprie opere, ma attraverso la presentazione di relazioni: mostrando cioè opere che hanno ricevuto in dono da altri artisti, o intellettuali, o a vario titolo sodali. È già un racconto, ed è un racconto mite e originale, quanto intenso e unico; racconto dove l’ego scompare, e di esso resta solo un’impronta, delimitata e resa visibile dalla presenza degli altri tutto intorno. Dalla presenza dell’altro, della relazione. 

Daniela De Lorenzo, in questo singolare e prezioso autoritratto “Controluce”, ha riunito nell’antica e affascinante struttura sovrastante le fonte opere e contributi (in alcuni casi inediti) di Emanuele Becheri, Lorenzo Bonechi, Ramona Caia, Antonio Catelani, Saretto Cincinelli, Serge Domingie, Paolo Fabiani, Fabio Fuente, Carlo Guaita, Giulio Paolini, Roberto Rizzoli.


"Daniela De Lorenzo. Controluce", Museo d'Inverno, Siena, 6 aprile - 9 giugno 2024


(Il video dell'installazione "Senza titolo (No)" di Ramona Caia si può vedere qui.)

domenica 31 marzo 2024

Pasqua di guerra

Pasqua di guerra, di genocidio, di invasione, di armi che rispondono alle armi, di pezzi di terra contesi come se la terra potesse essere di qualcuno o di qualcun altro, di umani rapiti come se fossero cose, di umani scambiati come se fossero figurine. Pasqua di un'umanità sull'orlo del baratro, di potenti che ci pingono avanti perché a fermarsi avrebbero paura di apparire deboli. Difficile dire "buona", come se niente fosse. Allora dico "buona" come se qualcosa fosse. Come se fosse impossibile ammazzare la gente, per qualsiasi motivo. Come se le guerre fossero state bandite, non solo nei trattati e nelle intenzioni. Come se l'articolo 11 della nostra Costituzione contasse qualcosa. Come se le città e le case non potessero mai essere distrutte, né le scuole, né gli ospedali. Come se nessuno credesse alle linee immaginarie che separano i popoli, le famiglie, i colleghi, gli amici, rendendoli nemici. Come se non esistessero industrie belliche e lobby guerrafondaie che sostengono i candidati, in USA e altrove. Come se la religione fosse una faccenda personale e di comunità, e mai di Stato. Come se fossero state per sempre superate quelle odiose ingiustizie, invisibili a chi non le patisce, che trasferiscono la dignità e la ricchezza di alcune persone nelle tasche di altre, o di interi popoli, e che stanno sempre alla base della violenza delle armi. Perché non c'è pace senza giustizia...


venerdì 15 marzo 2024

"L'estate breve" di Enrico Macioci (Terrarossa Edizioni)

L’estate breve
è una breve storia del talento. Questo infatti è il titolo di un preesistente libro di Enrico (Mondadori, 2015) che attraverso un’insolita operazione di autoriscrittura sta all’origine di questo nuovo romanzo, pubblicato da Terrarossa Edizioni.
È impossibile non soffermarsi subito sulla parola "talento", scomparsa dal titolo, ma non dal racconto. Soprattutto perché, scomparendo, la centralità e la complessità del tema sono divenute, forse, perfino più vistose.
Il talento è il tema portante della narrazione e dello scavo esistenziale (autobiografico?) di Macioci. Talento è un termine enorme, che appena pronunciato si apre come le lame di una forbice proiettandoci contemporaneamente in due dimensioni opposte, lontanissime nel tempo, nel contesto e nel senso.
Da un lato viene in mente l’accezione corrente, capitalistica e spettacolare, perfino squallida, quella che si ritrova nell’espressione “talent show” e che ha a che fare con la dimostrazione, l’esibizione o l’ostentazione di qualche capacità pratica, percepibile, che ci dovrebbe fare eccellere in qualcosa, distinguendoci da tutti gli altri. Questa idea di talento risponde alla domanda: “cosa sai fare meglio di tutti”?
Dall’altra parte, da molto lontano, risuona il senso inattuale del termine, quello neotestamentario, che scaturisce dalla parabola dei talenti. E qui siamo agli antipodi della società dello spettacolo dove la vita è gara di apparenza e di sopravvivenza. La parabola evangelica non chiede cosa sai fare, ma chiede cosa hai dentro di te, e quindi cosa puoi fare; non chiede di fare o di essere più degli altri, ma di essere se stessi, e di esercitare se stessi nel mondo senza risparmio, senza tenersi gelosamente, cautamente, egoisticamente per sé. Non chiede di esibirsi, per ricevere, ma di raccogliersi, per dare. Questo almeno è ciò che quella vecchia parabola suggerisce alle mie orecchie agnostiche.

Il libro di Enrico Macioci si muove tra questi due poli. O forse è l’adolescenza stessa a farlo. Il dodicenne al centro delle vicende (la stessa persona che, divenuta adulta, le narra anni dopo) si dibatte in un campo di forze delimitato dal mistero del sacro invisibile e dall’enigma della vita concreta. In questo campo – sovrapposto idealmente al campo di calcio – cerca se stesso; e assurge improvvisamente alla consapevolezza della vita, che la vita è, sperimentando per la prima volta il limite; e la scoperta del limite arriva quando si trova di fronte all’idea della morte; e questa lo raggiunge insieme alla sconfitta.
Il “grande Michele”, amico leggendario e calciatore prodigioso, quando compare (come dal nulla) mette un paletto nella considerazione illimitata che il giovane protagonista ha avuto di se stesso fino a quel momento. Prima non c’era morte, non c’era possibilità di sconfitta, non c’era neanche vita. C’era l’infanzia, che non necessariamente è felice, ma certamente è incantata ed eterna. E tutto ciò di cui dovesse essere manchevole può sempre apparire in sogno, come un risarcimento, come una promessa di qualcosa che c’è tutta la vita per ottenere – una vita ulteriore, più compiuta, e a sua volta infinita ed eterna, che a un certo punto dovrà per forza cominciare.
Nel confronto con il grande Michele l’idea di talento (che lo scrittore adulto forse proietta sul se ragazzino) muta radicalmente: smette di essere una certezza e diventa un dilemma, smette di essere una (auto)affermazione e diventa un'insistente domanda; non più premio ed elezione, ma condanna e capitolazione; non garanzia di eternità, ma certificazione di finitezza, a cui deve seguire la fine.

Il libro si legge d’un fiato. Breve e densissimo, è privo di una vera narrazione come comunemente intesa, ma è vertiginoso e avvincente nel susseguirsi di quadri che si accatastano nel magazzino del tempo breve di un’estate ideale, arsa, sudata, esistenziale. Un tempo assurdo, impossibile, pericoloso, slegato da ogni legge e da ogni logica: quello appunto, dell’adolescenza, della fame d’aria, degli andirivieni, del sacrificio finale del (dio) bambino. Da quel magazzino-crisalide non potrebbe che uscire un poeta. Un poeta destinato magari a vivere poche ore, come una farfalla; a sbriciolarsi alla luce del sole; a ricalcare la parabola esistenziale lasciata dai passi allucinati del vagabondo-veggente, Rimbaud.

Nella seconda parte del libro il narratore, in crisi coniugale e tormentato dalla sensazione di essere incastrato tra un mancato successo e un mancato fallimento, seguendo un’intuizione disperata, quasi di nascosto da se stesso, torna fisicamente nei luoghi dell’adolescenza. Lì le cose, gli odori, le immagini, le sensazioni e le emozioni escono dal ripostiglio della memoria e cominciano a vivere di vita propria; non più allucinazioni ma elementi naturali che strisciano tra i piedi dell’uomo, si arrampicano sulle sue caviglie, lo mordono, lo pressano, lo assediano. Fino a spremere da lui, in un distillato di commozione, riconoscimento e dolore, una consapevolezza nuova, scioccante: forse il talento è solo essere se stessi. Non nel senso del ragazzino che, abbandonando l’identità indistruttibile del bambino, “vuole" essere se stesso — vuole essere ciò che vuole essere, ciò che spera di poter diventare, ciò che si sente chiamato a rappresentare e a ottenere. Ma nel senso dell’adulto, che nella crisi e nel dolore può ancora abbandonarsi a una felicità languida ma estesa: quella dell’accettazione di ciò che non può non essere.

La straordinaria capacità di Macioci di impastare nella scrittura azione, ricordo, riflessione e illuminazioni, dimostra che la “miseria” fangosa, sanguinante, dell’esperienza fisica infantile sa perforare gli strati del tempo e continua a trafiggere la corazza dell’adulto, richiamandolo a verità e a realtà sepolte, ma ancora vive e vivide.
Questo suo "talento", mentre usciamo dal libro dopo averlo attraversato, evoca una domanda. I ragazzi di oggi, che in larga parte fanno esperienza di se e del mondo nel digitale e attraverso il digitale, come ripenseranno a se stessi tra vent’anni? Quali saranno i fili che potranno intrecciare al ragazzino o alla ragazzina che sono stati? Verso quali luoghi e in quali peregrinazioni li condurranno i disperati e incomprensibili richiami che forse un giorno sentiranno? Dove potranno trovare abissi e risposte?

martedì 12 marzo 2024

Piccolo Nicolas. Cosa aspettiamo per essere felici?

Capita di vedere un sabato pomeriggio, nell’umile cinema parrocchiale del Galluzzo (che è rimasto l’unica sala in tutta la Firenze che si sviluppa a sud dell’Arno), un meraviglioso e inaspettato film francese di animazione: Le avventure del piccolo Nicolas, di Amandine Fredon e Benjamin Massoubre, appena uscito in Italia.

Il film racconta le avventure di Nicolas, monello dolce e irriverente, protagonista di una serie di fumetti celeberrimi in Francia, meno in Italia, creati all'inizio degli anni Sessanta dalla penna di René Goscinny (l’autore di Asterix e Obelix e di Lucky Luke) e dalla matita di Jean-Jaques Sempé. Più che rappresentare sullo schermo le avventure dell’irresistibile bambino (come è stato fatto in passato), il film racconta il carattere dei suoi creatori, l’amicizia tra loro, e soprattutto il rapporto sentimentale di entrambi con i loro personaggi e con la loro opera comune.
È incantevole assistere al piccolo Nicolas che esce dalla macchina da scrivere di Goscinny, parla con lui, lo interroga, lo provoca; e poi, rivestito delle idee dello scrittore, si trasferisce nelle tavole a cui Sempé sta lavorando; e poi accompagna l’artista in malinconiche passeggiate per Parigi per ascoltare i suoi ricordi d’infanzia, che in qualche modo diventeranno un po' anche suoi.
È un film quieto, gentile, riflessivo, esplosivo solo per l’esuberanza di Nicolas e dei suoi amici (e delle sue amiche, formidabili!), senza colpi di scena, senza adrenalina, senza inseguimenti incalzanti, libero dagli schemi narratologici, ritmici e visuali che prevalgono nel cinema contemporaneo (per bambini e non).
È un film che non intrattiene, ma fa di più e di meglio: offre allo spettatore la magia di un incessante travaso tra la realtà biografica degli autori e quella fantastica di Nicolas; travaso reso naturale dal gioco del disegno che si anima all’interno dell’animazione (nel senso di film), con l’inevitabile fusione dei due piani.
Le felici intuizioni grafiche sono puro piacere: come la creazione e la modificazione dei personaggi e degli scenari, a colpi di matita, via via che i due compagni ne discutono; o il modo in cui i personaggi si scolorano ogni volta che si avvicinano ai bordi dell’inquadratura/illustrazione. Sono tutte soluzioni tecniche che, grazie alla finezza del racconto diventano metafore di tante cose.
È più vera la vita dei due uomini in carne e ossa o quella del bambino fatto di pochi tratti di matita, umorismo e grazia irriverente? Sono Goscinny e Sempé a far vivere Nicolas, o è piuttosto vero il contrario? L’immaginazione si nutre della vita, o è la vita a essere fatta di nient'altro che di immaginazione? E soprattutto: “cosa aspettiamo per essere felici?” (questo è il sottotitolo dell’edizione originale, ed è un peccato che si sia persa nell'edizione italiana). Sono domande che sembra porsi anche Sempé, nel film, quando riceve la terribile notizia della morte dell’amico scrittore.
Questo film che parla con tanto garbo di atto creativo, di libertà, di gentilezza e amicizia, mi ha fatto pensare a due cari amici illustratori, Simone Frasca e Francesco Chiacchio. Due artisti molto diversi tra loro, accomunati però dalla capacità di dare vita a un personaggio, a un pensiero profondo, a una battuta pungente, a un ricordo, a un rimedio per l’anima, al seme di un intero mondo, con due o tre tratti di matita. E dal fatto di essere gentili.

sabato 21 ottobre 2023

Discorso immaginario del Primo Ministro Israeliano

"Abbiamo subito il più grave attacco della nostra storia. Centinaia di persone innocenti sono state uccise, torturate, rapite. Migliaia di persone sono state minacciate, terrorizzate, umiliate. Abbiamo risposto con durezza. Abbiamo ucciso migliaia di persone, centinaia di bambini, colpito chiese, ospedali, bloccato ambulanze, terrorizzato un intero popolo. Ed è stato soltanto un preliminare dal cielo. Questa notte, infatti, scatterà l’invasione di terra. Con carri armati e soldati istruiti per sparare a qualunque cosa si muova. Come è avvenuto in passato. Decine di migliaia di persone cesseranno di vivere. Donne, donne incinte, donne anziane, bambine. E uomini, anziani, ragazzi, bambini. Famiglie saranno cancellate. Tutto sarà distrutto e il fuoco laverà l’offesa, il loro dolore sopravanzerà di molto il nostro dolore.
Invece no...
Queste parole già scritte stanotte verranno cambiate: non ci sarà l’invasione. Adesso, davanti al mio popolo, davanti ai nostri aggressori, davanti al mondo intero, io ordino di bloccare ogni operazione. La sola operazione che avverrà, questa notte, sarà la demolizione di un muro: quello che abbiamo eretto tra noi e i nostri nemici, tra un popolo e un popolo, entrambi appartenenti al genere umano. Domani mattina chi oltrepasserà quel confine non troverà la morte: troverà un tavolo in mezzo al deserto, e noi seduti da un lato ad aspettare, disarmati, la fronte distesa, le mani vuote. E altrettante sedie dall’altro lato. E cibo. E doni.
Ci hanno chiesto di scendere a un piano dove non c’è traccia dell’umano. E noi siamo scesi. Ci hanno chiamati a essere non uomini ma demoni, rispondendo all’uccisione con l’uccisione, all’odio con l’odio, all’inferno con l’inferno. E noi, per due settimane, lo siamo diventati. Ci siamo lasciati condurre in un luogo dove, guardandoci allo specchio, non vediamo più i nostri volti, ma teschi dalle orbite vuote.
No. Noi non uccideremo più un bambino, un uomo, una donna. Non ci saranno più "danni collaterali". Non uccideremo nemmeno un terrorista, un miliziano, un soldato. Noi non uccideremo.
Ci hanno chiesto di insegnare ai figli la furia che risponde all’orrore. Noi insegneremo ai figli un’altra cosa. Davanti agli occhi spalancati dei figli, noi risponderemo alla violenza con più democrazia. Risponderemo alla ferocia con più giustizia. Risponderemo al crimine con più legalità. Risponderemo all'oltraggio con più dignità. Risponderemo all’odio con il perdono.
Non un perdono che offriamo, ma un perdono che chiediamo.
Lo chiediamo a milioni di bambini che abbiamo costretto a una vita indegna di essere vissuta; a milioni di donne e uomini a cui abbiamo sottratto tutto, infliggendo sofferenze ingiuste, se mai potessero esistere sofferenze giustificate; a un popolo che abbiamo vessato, segregato, depredato, sfruttando la nostra posizione di maggior potere.
Noi chiediamo perdono ai nostri cuori, per averli pietrificati.
Noi rispondiamo alla guerra con la pace, e dismettiamo la guerra dai nostri cuori. Domani, provate a cercare la guerra nei nostri cuori, provate a suscitarne gli istinti con ogni mezzo a disposizione, pungolandoci, provocandoci, attaccandoci ancora. In noi, non ne troverete i sentimenti, il desiderio, le azioni, le munizioni. Non ne troverete le parole. A chi dice che il nostro Dio vuole la guerra, a chi si appella al Dio degli Eserciti e delle Nazioni, noi diremo che quel Dio ha fatto il suo tempo. La sabbia ha ricoperto il suo corpo ingombrante, lo ha seppellito, già facciamo fatica anche a ricordare i suoi nomi.
E se quel Dio defunto manderà Angeli in tuta mimetica e mitra a sconvolgere i nostri sogni, per continuare e vivere nel nostre azioni mostruose, noi grideremo forte per svegliarci.
E, al risveglio, frastornati andremo nel deserto, nella terra di nessuno, e aspetteremo lì, senza cibo e senza acqua, finché Dio non rinascerà con un altro volto e non ci rivolgerà una parola nuova."

sabato 30 settembre 2023

"Poco mossi gli altri mari" di Alessandro Della Santunione, Marcos y Marcos

 

Nel corso del 2023 la casa editrice Marcos y Marcos ha dato casa (e carta), tra le altre cose, a due case molto strane, accogliendo nella serie principale il romanzo "Poco mossi gli altri mari” di Alessandro Della Santunione e nella collana Gli Scarabocchi (quattordicesima uscita) il racconto per ragazzi “Le mucche di Chernobyl” di Fulvio Ervas.


La casa al centro del romanzo “Poco mossi” è un grande appartamento nei pressi di Campogalliano, Modena, dove un’intera famiglia, con tutte le sua estensioni e propaggini, si è riunita per volontà di uno dei membri, il padre del protagonista, in una riproposizione della famiglia allargata tipica delle case di campagna di un paio di epoche fa. La conseguenza di questa scelta di vita in comune – tutti assiepati a costo di ricavare nicchie e giacigli negli anfratti più improbabili – è che nessuno più smette di vivere. Non è chiaro, per la verità, se ci sia un nesso causale tra i due fatti. Il risultato comunque è che nessuno muore più, e pertanto si accumulano parenti, generazioni, e anche idiomi, immaginari, mondi simbolici, rispecchiamenti. In questa proliferazione senza fine il tempo risulta gravemente manomesso rispetto alla credenza che lo vede procedere in modo lineare, irreversibile e uguale per tutti: rivelando strani andirivieni e inattese sacche di decompressione, accessibili a qualcuno e non ad altri, e viceversa. Accade anche che qualcuno invece muoia: non qualcuno della famiglia, in effetti, ma Dio. Succede così, da un giorno all’altro. In qualche modo tutti ne ne hanno cognizione, come di un dato di fatto.

Il romanzo, vincitore del premio Berto, ha una grazia sopraffina, e tiene insieme l’umorismo stralunato tipico di certa narrativa emiliana e la durezza della scrittura che decide di prendere di petto le questioni cruciali e crudeli dell’esistenza: il tempo, la verità, il dolore, la morte, l’oblio, l’amore, i fallimenti, Dio.

A volte – spesso – nella stessa frase si passa più volte da un registro all’altro, e le giravolte del narratore tra il ruolo del filosofo e quello dell’“idiota” (dostoevskiano) sono irresistibili:

“In questo meccanismo perfetto e necessario un Dio uomo è la vera bestemmia: una scheggia impazzita. Salta tutto, perché l’uomo diventa un enorme volano che accresce la misura del dolore di Dio, la sua violenza, creando inutili sofferenze: come i cani randagi, le villette a schiera, gli allevamenti intensivi, i centri commerciali, Hiroshima, il neoliberismo o le pantere nei circhi.”

In fondo Poco mossi gli altri mari è un romanzo sulla fine dell’innocenza, una riflessione sul “prima" che a un certo punto scompare, un tentativo di rimettere insieme le tracce che l’origine di tutto e di ciascuno deve pur lasciare da qualche parte. (Forse tutta la letteratura moderna, in fondo, non è altro che questo. Non lo so.) 

Ma la morte di Dio – “un tipo strano” – è in realtà una sparizione, perché non è possibile rintracciare la salma, una morte decretata per prassi burocratica, quindi, e forse indica più che altro una sua diluizione in tutte le cose. E analogamente l’innocenza non è finita, e non è soltanto oggetto di nostalgia e di memoria: a ben guardare l’innocenza è esplosa, e come una radiazione ha modificato alcuni particolari: quelli di una scrittura che conserva a livello stilistico, sillabico, di tono della voce rappresentato, il rumore di fondo del primo incanto. Dove alle griglie interpretative non è ancora concesso il potere di escludere dall’esistenza e perfino dalla percezione tutto ciò che è destinato a restare senza nome e senza spiegazione.


A proposito di esplosioni e di radiazioni. La seconda casa, quella in cui è ambientato il racconto di Ervas, si trova all’interno della zona contaminata di Chernobyl ed è popolata da un’accolita di animali sopravvissuti al disastro, ma usciti da esso un po’ mutati.

Ma di questo libro parlerò in un altro post…